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L’istituto in esame prende le mosse dall’art. 809 c.c. e consiste nella liberalità che viene posta in essere, anziché attraverso la donazione tipica, mediante un negozio oneroso.

Si diversifica dalla donazione diretta perchè il mezzo utilizzato è un negozio giuridico che persegue lo scopo tipico indirettamente, come fine ulteriore e diverso rispetto alla causa propria del negozio astrattamente considerato (Cassazione, 11 ottobre 1978, n. 4550).

Molteplici sono gli inquadramenti dogmatici che la dottrina ha elaborato; la tesi più largamente diffusa riconduce tutte le ipotesi di donazione indiretta alla categoria del negozio indiretto.

Non mancano però orientamenti contrari.

Un punto è però pacifico: all’istituto in esame non si applica l’art. 782 c.c. secondo cui per la donazione diretta occorre l’atto pubblico ad substantiam.

Una delle fattispecie dai risvolti pratici più interessanti riguarda l’intestazione dei beni in nome altrui.

In altri termini si analizzerà il caso in cui un soggetto riceva una donazione di denaro, gravata dall’onere di acquistare un determinato bene.

Chiarito che la donazione indiretta è caratterizzata dal fine perseguito, che è quello di realizzare una liberalità, e non già nel mezzo, che può essere il più vario, in questo caso si pone il problema di verificare quale sia l’oggetto della donazione. Si pensi alla donazione di denaro che un genitore compia verso il figlio per l’acquisto di un immobile in favore di quest’ultimo.

Se si considera oggetto della donazione la somma di denaro, la collazione ex art. 751 c.c. si concreta in un obbligo di valuta (e quindi si ha riferimento alla somma di denaro materialmente donata), per cui il donatario sarà tenuto a collazionare l’importo di denaro ricevuto dal de cuius al tempo della liberalità, sulla scia del principio nominalistico, maggiorato degli interessi legali.

Al contrario, ove si ritenga che oggetto della donazione sia il bene immobile acquisto con quell’esborso, il donatario è tenuto a collazionare detto immobile o, in alternativa, una somma corrispondente al suo valore di mercato al momento dell’apertura della successione.

La questione ha suscitato un vivace e proficuo dibattito dottrinale e giurisprudenziale.

Da un lato, vi sono i sostenitori della prima tesi che individuano nell’oggetto della donazione la sola somma di denaro donata dal de cuius. A questa tesi, si contrappone quella maggiormente seguita e coerente con lo spirito dell’istituto, secondo cui occorre verificare l’intento del donante e non il mero fatto.

A risolvere la dibattuta questione sono intervenute le Sezioni Unite della Suprema Corte che, con l’illuminante sentenza del 5 ottobre 1992 n. 9282, hanno dipanato ogni dubbio al riguardo avendo premura di specificare e distinguere l’ipotesi in cui il denaro sia stato donato come tale, nel qual caso nulla quaestio, da quella, ben diversa, in cui il denaro sia stato donato con un intento, una previsione del donante.

Ne consegue che, secondo la Suprema Corte, qualora il denaro sia stato dato al precipuo scopo dell’acquisto immobiliare, stante il collegamento eziologico tra elargizione del denaro e acquisto dell’immobile, “non pare possa revocarsi in dubbio che […] si sia in presenza di una donazione (indiretta) dello stesso immobile” e non, invece, del denaro impiegato per il suo acquisto.

A sostegno, conferma e conforto del suddetto orientamento, è seguita un’altra brillante sentenza della Corte di Cassazione (24 febbraio 2004, n. 3642) con cui si è ulteriormente meglio chiarito che ciò che conta, in definitiva, è verificare quale sia l’oggetto dell’animus donandi, a prescindere dal negozio in concreto adoperato.

In definitiva, l’orientamento giurisprudenziale e la migliore dottrina, sviluppatosi intorno al fenomeno dell’intestazione di beni in nome altrui, ripudia l’impostazione formalistica e attribuisce rilievo alla valutazione sostanziale del collegamento negoziale tra la messa a disposizione del denaro e il successivo acquisto dell’immobile.

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